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Christian Raimo
Scrittore e assessore alla cultura del III Municipio di Roma
Per parlare di una città, per parlare in generale delle città, bisogna ampliare lo sguardo non soltanto al presente, al passato prossimo o al futuro prossimo, ma cercare anche di ragionare in termini di lunga durata; questo è quello che è utile alla storia delle città in generale, ma anche alla politica delle città.
Roma è una città strana perché, a differenza di tutte le altre è come se ci fosse sempre stata: la fondazione di Roma è quasi mitica, una fondazione che risale alla notte dei tempi, e quindi noi spesso immaginiamo Roma come un luogo eterno, indipendentemente dalle società, dai governi e dalla politica che poi governa, che la attraversa, fra le comunità che si sono succedute man mano.
Io spesso, quando sono a scuola, faccio questa domanda semplice: «secondo voi, quanti abitanti aveva Roma nell’anno zero, nell’anno 1.000, nel 1975 ed oggi?». E le risposte sono sempre un po’ sconcertanti, perché Roma è appunto una città che non sembra quello che è.
Roma nell’anno zero, Roma imperiale, aveva un milione di abitanti e quindi era una metropoli prima che esistessero le metropoli. Per arrivare a dei numeri così grossi dobbiamo arrivare all’età moderna avanzata; Roma nell’anno zero era un piccolo borgo, aveva trentacinquemila/quarantamila abitanti, meno di un quartiere di oggi; Roma nel 1975 aveva due milioni e settecentomila di abitanti; Roma nell’anno in cui sono nati i ragazzi che stanno a scuola e Roma oggi ha due milioni e ottocentomila abitanti.
Quindi da una parte la storia di Roma è una storia che ha avuto delle trasformazioni radicali; quando noi parliamo di fasti di Roma bisogna capire bene a che cosa ci rivolgiamo, ed anche quando parliamo delle crisi di Roma. E dall’altra parte, negli ultimi anni, come popolazione è rimasta abbastanza immobile.
Tuttavia, dal dopoguerra in poi, quello che è cambiato è che, anche qui, noi dovremmo concentrarci sulla composizione della popolazione romana, perché nel dopoguerra la popolazione romana – come quella italiana in generale – è soprattutto una popolazione giovanissima ed anche abbastanza povera; fino agli anni Sessanta/Settanta le persone che vivono in case abusive, in baracche ed in situazioni di povertà conclamata arrivano quasi a un milione.
Noi immaginiamo Roma come una città, mentre invece dobbiamo pensare ad una Roma come ad un coacervo di comunità che sembrano delle comunità paesane, realtà che somigliano più a realtà contadine che non a realtà urbane, e questa strana formula urbanistica che noi usiamo sono le borgate. Le borgate sono una caratteristica romana che indicano proprio delle comunità che si sviluppano al di fuori del centro di Roma, in una periferia espansa e che, in un certo qual modo, si sono densificate soprattutto dai problemi più che dalle possibilità. Tuttavia, come avviene in tutte le comunità, spesso i problemi creano poi anche delle culture sociali; quindi la cultura delle borgate forse è stata – anzi, sicuramente lo è stata – una delle forme di cultura che più ha dato vita a romanzi, film, canzoni, perché in fondo la borgata, come la periferia, è semplicemente il posto in cui la gente vive.
Questa Roma borgatara, questa Roma di una periferia che diventa uno “sprawl”, quindi una specie di grande tessuto urbano lacerato – questa era la definizione che si dava anche di Pasolini – rimane vera fino agli anni Ottanta/inizio Novanta, quando quello che succede è che, fondamentalmente, cambia la consistenza della popolazione romana.
Nel 1975 gli under diciotto erano il 42%, oggi sono il 24%; e dall’altra parte, in maniera inversamente proporzionale, è salita enormemente la fascia di popolazione over sessanta; quindi negli anno ’70 i giovani erano la maggioranza, oggi sono una minoranza. E quindi le città chiaramente diventano città ad uso di una popolazione più anziana – ad uso di una popolazione più agé – e questo trasforma anche l’idea di città, perché le città sono dei luoghi di conflitti, di contrasti, di trasformazioni; questo è stato sempre la funzione della città: mentre l’extra città, la campagna, la provincia sono dei luoghi in cui tutto resta immobile, le città sono dei luoghi in cui le trasformazioni corrono veloci, non esiste un anno uguale all’altro. Questo è stato vero fino agli ultimi anni; l’immobilismo di Roma negli ultimi vent’anni è stato sempre più evidente. Roma è una città che non sa trasformarsi, che man mano è stata amministrata bene e male, ma non è stata pensata, non è stata governata, non ha avuto una vocazione. Qual è il destino di Roma? Negli ultimi vent’anni si è pensato che si potesse amministrare Roma provando ad estrarre valore dalla sua storia millenaria. In fondo un turismo a basso costo, tre giorni a Roma non se li nega nessuno in tutto il pianeta, e quindi quei soldi, anche facili, di incasso dovevano poi portare alle casse del Comune di Roma la possibilità di gestire le economie per il resto della città; una specie di fondale, spesso una specie di monocultura turistica scadente. Questo ha completamente trasformato il centro di Roma, che è diventato un posto piuttosto vuoto, una specie di fondale, spesso si dice una cartolina, ma in fondo non è nemmeno una cartolina. Una cartolina racconta una Roma anche bella, mentre invece sembra proprio un fondale un po’ “sgarrupato”, un po’ vile. Dall’altra parte il piano regolatore dell’inizio degli anni Duemila, che era stato pensato per una città che si doveva trasformare, espandere, avere una vocazione multicentrica, di fatto ha creato delle nuove borgate che non si chiamano più borgate, ma “nuove centralità”. Tuttavia, hanno la stessa difficoltà a connettersi fra di loro, sono dei quartieri molto lontani dal centro, con pochi servizi, con poca possibilità di connettersi – penso ad esempio a Ponte di Nona, a Porta di Roma, alla Romanina -, la cui vita sociale viene risucchiata da questi grandi centri commerciali.
Per cui, di fatto, la città viene svuotata anche della sua funzione sociale, di incontro, le città, le piazze, le strade, i quartieri, le scuole; viene svuotata dalla sua funzione di incontro casuale con persone che non si conoscono, perché poi questa è in fondo la caratteristica fondamentale della città; e questa vita sociale viene risucchiata, viene fagocitata dai centri commerciali, che non hanno soltanto una funzione di consumo, ma diventano inevitabilmente anche i luoghi della socialità, i luoghi della cultura, perfino, in un modo o nell’altro, i luoghi della politica, pervertendo tutte le funzioni sociali, commerciali e politiche della città.