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Paolo Masini
Già assessore alle periferie del Comune di Roma e Presidente RomaBpa, Mamma Roma e i suoi figli migliori
Dopo la fine della guerra Roma si trova a festeggiare un grande momento, il momento della Liberazione tanto voluto da tantissimi partigiani e dagli alleati che appunto venivano in questa città e ci aiutavano a liberare non solo Roma, ma tutto il Paese.
Ma già da quel momento della Resistenza molti dei quartieri che possiamo considerare periferici diedero un grande contributo alla Liberazione. Pensiamo al Quadraro, a La Storta, tanti luoghi simbolici anche per quel momento.
E poi dopo c’è da fare i conti con la ricostruzione, ricostruzione con una nuova vita, con nuovi sviluppi. Da quel periodo in poi il primo sindaco che un po’ gestì la parte post-bellica fu il primo sindaco antifascista: Andrea Doria Pamphili.
Tuttavia il sindaco che più abbia inciso rispetto a tutto il tema delle periferie, fu chiaramente Luigi Petroselli che diede uno sviluppo – un po’ caotico, come si direbbe oggi di “edilizia spontanea” – e cercò di rimettere mano alla crescita della città. L’ha fatto cercando soprattutto di dare dignità ai quei cittadini che, di fatto, abitavano in baracche.
Si sentono ancora spesso i ricordi dell’assessore al sociale Prisco, che raccontava quanto in quel periodo, grazie a dei fondi Acea, si decise di ridare dignità a quei luoghi, a buttare giù le baracche e fare delle vere e proprie case. Il che avvenne anche con discussioni, perché tutti volevano arrivare prima ad avere una casa nuova, e anche lì, con un grande lavoro di ascolto della città, con un sindaco meraviglioso come Petroselli, man mano siamo arrivati a quello che vediamo, che negli anni successivi ha però avuto anche qualche problema.
è bene ripetere che, laddove si sbagliano le scelte urbanistiche, dopo si paga con problemi sociali; lo vediamo a Tor Bella Monaca, a Corviale, e in decine di altri posti della città; dove si fa un’urbanistica che non pensa a luoghi d’incontro, a luoghi di socialità, ma tende a costruire in alto o per lungo dei palazzoni, vengono a galla dei problemi poi difficilmente recuperabili.
Malgrado questo, in alcune periferie, anche nei casi citati prima, troviamo tutt’oggi delle sacche di buone pratiche, sane: dal calcio sociale di Corviale, o a tutte le iniziative culturali che nascono a Tor Bella Monaca.
Purtroppo, anche dove ci sono cittadini che tentano di raddrizzare la rotta il confine resta labile. San Basilio, ad esempio, è una delle piazze di spaccio più grandi d’Europa e ci troviamo dei ragazzi, addirittura delle medie, che vengono attirati da proposte economicamente molto succulente: dopo che gli insegnanti avvertono delle loro continue assenze si scopre che finiscono per strada, a quell’età, a fare i “pali” per ottocento/mille euro al mese.
Il grande lavoro che occorre fare è quello di ripartire proprio dalla dispersione scolastica: laddove ci sono le sacche più importanti di ragazzi che abbandonano la scuola lì si deve accendere la lampada, l’allarme rosso.
Bisogna partire con progetti dentro i quali mettere insieme vari pezzi, pezzi sani, che possono essere la parrocchia, o il centro culturale, ma che deve essere la scuola, spesso in quei luoghi l’unico punto istituzionale.
Perché, se l’urbanistica ha sbagliato e non dà luoghi sociali, la scuola rimane, diventa e permane l’unico punto di socialità, ed è per questo che è bene che le scuole siano aperte tutto il giorno, tutti i giorni, tutto l’anno, perché sono il luogo sano da frequentare, attraverso lo sport, attraverso vari tipi di iniziative.
Su questo occorre spingere in maniera importante. Perchè da quei luoghi occorre ripartire: gli episodi più gravi di violenza, ma a volte anche di buone pratiche, partono proprio da quelle parti.
Due temi, due grandi colossi che in genere si combattono: è compito delle istituzioni far vedere di essere presenti insieme alla parte sana, può essere di qualsiasi estrazione, da quella religiosa a quella laica a quella sportiva: il punto è dare delle alternative, delle opportunità ai nostri ragazzi e far vedere che c’è un modo diverso di crescere, c’è un modo sano per far ridecollare le nostre periferie.
Roma è una città complicata. È la città sicuramente più complicata d’Italia; dentro Roma c’entrano sette/otto medie grandi città italiane come se prendessimo una scatola, che è Roma e ci mettessimo dentro Milano, Torino, Firenze, Napoli, tutte lì dentro.
Ed è questo uno dei problemi: non esiste un vero decentramento e tutto ciò è difficile da governare. Roma è formata da centinaia di microcittà, e la ricetta per governarla è quella di fare in modo che quelle microcittà siano comunità, città-comunità, e pertanto mettere insieme i pezzi, dai commercianti a tutte le parti sane di quel territorio. Per creare comunità non c’è un’altra ricetta, ed è per questo che Roma non può essere equiparata ad altre città italiane; dovrebbe avere gli stessi poteri che hanno Londra, Parigi, e le grandi città europee, che hanno un decentramento e dei poteri particolari che consentono di governare al meglio questa massa un po’ problematica e informe, ma nello stesso tempo meravigliosa che è Roma.
Solo alcuni dati: le strade manotenute dal Comune di Roma sono pari a 5500 chilometri, in pratica le stesse di tutta la Lombardia. Questo per far capire quanto sia complicata Roma e quanto lo siano le periferie (ce lo dice anche Salvatore Monni con Mappa Roma). Con tutto quello che sta avvenendo in questo periodo è fisiologico che man mano la vita esca dal centro, si trasformi e vada sempre più in periferia. È per questo che occorre riprendere un po’ l’insegnamento di Petroselli; bisogna rimboccarsi le maniche, rimettere insieme i pezzi, dare delle opportunità. Adesso, con il recovery, immagino che probabilmente ci saranno delle opportunità. Se ci saranno, bisognerà coglierle fino in fondo e in questo dare un grande supporto a chi ci mette la faccia, a chi ci mette impegno: penso alle tante maestre, insegnanti, presidi, anche poliziotti di quartiere – là dove ci sono -, che fanno un grande lavoro. Io credo che sia questo il grande lavoro da fare, seguendo un po’ l’insegnamento di quelle che sono state le buone pratiche anche amministrative, ma non solo.
Kennedy diceva: «Non chiederti quello che lo Stato può fare per te, ma cosa tu puoi fare per lo Stato».
È un doppio passo. Le amministrazioni debbono avere il coraggio e l’umiltà di avvicinarsi in maniera sana, non strumentale, alle periferie e, allo stesso tempo, i rappresentanti, i cittadini delle periferie credere, se trovano appunto uno sfondo giusto e una prospettiva affidabile, di rimboccarsi le maniche e ripartire.
Lo dicevamo prima, le periferie hanno dei problemi soprattutto quando l’urbanistica è sbagliata; io credo che l’architettura abbia un senso quando ascolta il territorio e si cala nelle radici del territorio per cui viene pensata. Un mio amico ama ripetere che un architetto dovrebbe, per legge, vivere dieci anni nel luogo che ha progettato. Credo che sia una buona soluzione, perché poi esistono quei luoghi grigi, grigi anche di colore, che avrebbero bisogno di colore, e che invece stanno facendo danni importanti; pertanto questo lavoro di riattivismo, di ricreare un clima sano nelle periferie parte da tutti.
È una cosa che dovremmo fare tutti, architetti compresi.